Oggi il Tour de France si arrampica sul Massiccio del Giura fino alla cima del Grand Colombiere. Sabato e domenica la prima due giorni alpina. Il fil rouge che unisce il ciclismo e le rocce. Di giostuzzi
Le rocce sono un richiamo irresistibile, sono, con il mare, l’unico luogo irraggiungibile per una bicicletta. Sussurrano a chi pedala vieni a prendermi. Per questo ci avviciniamo a loro il più possibile. Guardare una corsa a tappe è come guardare tutte le rocce.
È sedimentario il ciclismo, un sovrapporsi di sedimentazioni di fatica e scatti, un accumularsi sul fondo dei muscoli di tentativi andati bene e andati male, di scatti, fughe, cadute, rincorse. E di ambizioni svanite, agguantate, che sembravano perse e poi, a volte, ricompaiono quando ormai le speranze erano scomparse.
È vulcanico il ciclismo, un’esplosione di scatti e controscatti, di tentativi che sembravano illusori e che invece, chilometro dopo chilometro hanno preso forma, soprattutto sostanza. Il gruppo che si frantuma, che si sparge per le strade come fossero lapilli lanciati nell’aria dal cratere. È metamorfico il ciclismo, nell’incedere verso l’arrivo cambia, si evolve, si trasforma. E trasforma le nostre attese, incentiva la nostra passione, il nostro desiderio di essere lì, a bordo strada o a bordo divano, perché quando la corsa si accende, accelera il ritmo, si finisce sempre a stare “in punta di cuscino”, busto in avanti, quasi a voler entrare nello schermo e stare lì, con loro, a spingerli con lo sguardo e gli allez.
È sempre, soprattutto, carsico il ciclismo. Un accumularsi di grotte e aperture sotterranee, luoghi buoni dove accumulare risorse extra da poter tirare fuori quando sembra di aver dato tutto. Vale per tutti i corridori della domenica, vale soprattutto per i corridori che si dannano gambe cuori polmoni animo per vincere una tappa, un Tour de France. Va sempre a finire che alla fine vince chi ha più cavità, chi ha le doline più profonde.
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