In morte di uno dei fondatori del Partito radicale, Roberto Cicciomessere, che stava nel partito a modo suo, come si sta in una compagnia cui non si sacrificherà ciò che è essenziale. Senza prendere l’obbedienza per una virtù. Di Adriano Sofri
In morte di uno dei fondatori del Partito radicale, che stava nel partito a modo suo, come si sta in una compagnia cui non si sacrificherà ciò che è essenziale. Senza prendere l’obbedienza per una virtù, estraggo questa conclusione di Carmelo Palma per Linkiesta: “Non era solo il radicale più bravo, ma anche il più buono di tutti”. Come tutte le cose vere dette semplicemente e nettamente, sembra a prima vista paradossale.
La speciale simpatia che ho avuto per lui viene da due cose. La sua fedeltà radicale, che coincideva con una indipendenza morale e una intransigenza intellettuale libere da soggezioni all’autorità di Pannella o a una qualche disciplina di partito: era forse il meno “allineato” tra i radicali, e insieme quello di cui non si poteva immaginare che ne “uscisse”. “Uscirne” era pratica diffusa, come entrarci: affiliazioni di passaggio.
Ci stava, appunto, lasciatemi dire, come don Milani stava nella sua chiesa: senza uscirne, senza sacrificarle niente di essenziale, salvo quello che altri avrebbero chiamato orgoglio – inessenziale. Di Barbiana si parla come dell’esilio di don Milani. Da un certo punto, dopo esser stato più volte titolare del partito radicale, Cicciomessere ci abitò in un esilio a casa sua, facendo originalmente le tante cose che sembravano giuste a lui e utili per gli altri.
La seconda ragione di simpatia speciale sta nella sua dignità di uomo innamorato e ferito, così come la conobbi in un tempo in cui lo frequentai più da vicino. Una volta mi aveva entusiasmato una vacanza sua e di Emma, due dalla presenza diuturna e ufficialmente insostituibile, l’evasione di una stagione di vela alle Antille. Una di quelle cose che non ci si aspettava da loro, finalmente.
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